Project Description

Matteo Selvini

 

  • Dal padre autoritario al padre democratico

Nel corso di questo secolo, in modo lento, stratificato, socialmente e geograficamente differenziato, il ruolo del padre nella famiglia si è andato trasformando. L’industrializzazione ed in generale tutti i mutamenti dell’organizzazione del lavoro distanziano fisicamente l’uomo dalla famiglia, un padre ben più presente quando era impegnato nelle attività agricole ancora largamente prevalenti nell’800 (Mitscherlich, 1969).

Il clima affettivo si muove però esattamente nella direzione opposta. Il padre patriarcale tradizionale è distante, autoritario, affettivamente autarchico, delega totalmente alle donne (madre, nonna, sorella maggiore) l’allevamento e l’educazione dei figli, anche se si riserva l’ultima parola su tutte le decisioni più importanti (studi, lavoro, matrimonio).

Uomini arcaici di questo tipo esistono ancora, ma son sempre di meno. Alla fine degli anni ’70, in un centro psichiatrico pubblico per adulti, mi capitò di incontrarne ancora parecchi (Covini e al., 1985). Nati negli anni ‘10-’20, provenivano di solito da zone rurali interne del sud d’Italia e vivevano molto male le nostre sistematiche convocazioni allargate all’intero nucleo familiare. L’essere messi di fatto, dall’atto implicito nella riunione stessa, sullo stesso piano della moglie e dei figli, veniva da loro vissuto come un’offensiva mancanza di rispetto, lesiva della loro dignità.

La terapia familiare può nascere solo dalla crisi di questa cultura maschile e dal graduale affermarsi di un padre più democratico, disposto ad ascoltare ed a negoziare sia con la moglie che con i figli, affettivamente non più così distante ed autarchico, sempre maggiormente coinvolto in un cultura “puerocentica” che lo responsabilizza e lo coinvolge nell’accudimento quotidiano e nelle strategie educative.

Un’evoluzione lenta che assume un’accelerazione violenta negli anni ’70 e che quindi investe soprattutto i nati negli anni ‘50-’60 segnando in senso antiautoritario, antimaschilista, psicologicizzante (si pensi ai movimenti e gruppi di cosiddetta “autocoscienza”) una generazione che incontra queste nuove culture proprio nell’adolescenza, cioè nel momento di massima sensibilità nella formazione della identità personale/culturale.

 

  • Terapia familiare e modello psicoanalitico tradizionale

E’ fondamentalmente un vecchio padre autoritario quello che si rispecchia nella teoria edipica freudiana, un padre vissuto soprattutto come minaccia di castrazione, come nella celebre battuta di Sartre: “Mio padre era ufficiale in Indocina, è morto giovane, sono stato fortunato, non ha fatto in tempo a schiacciarmi”.

Già in un grande psicoanalista quasi contemporaneo come Kohut troviamo una ben più benevola  immagine del padre e di conseguenza il tentativo di soppiantare il mito del crudele ed assente padre di Edipo con quello di un Ulisse affettuoso protettore del figlioletto Telemaco (Kohut, 1971).

Non a caso il modello familiare sistemico nasce sul terreno della contestazione anti-psicoanalitica nell’affermare la necessità di concepire la comunicazione e la relazione in termini come minimo triadici (Ricci e Mara Selvini Palazzoli, 1984; Ugazio, 1985).

La riscoperta del padre e di un suo ruolo attivo, fondante, complesso è così alla base  della nascita della terapia familiare, nella critica del riduzionismo diadico della maggior parte della letteratura psicoanalitica che tende a confinare il padre in un ruolo subalterno alla diade madre-bambino, vista sempre e comunque come primaria. Una visione dove il padre sembra non poter avere un suo rapporto diretto con il figlio, può entrare in gioco come “separatore” della diade primaria, o tutt’al più con il ruolo in negativo di trasmettitore di un super-io rigido e colpevolizzante. Nella pratica, la terapia familiare nasce proprio convocando i padri, e facendoli diventare molto attivi, vuoi con i metodi strutturali più diretti di Minuchin, vuoi con le provocazioni paradossali e non paradossali utilizzate da Selvini Palazzoli, Whitaker e altri pionieri.

La critica dell’idea psicoanalitica della diade primaria madre-bambino è stata vincente, anche se non priva di qualche conseguenza negativa, come il ritardo nella valorizzazione degli importanti studi di Bowlby e della sua scuola, visti a lungo con diffidenza proprio per il loro diadico vizio d’origine.

 

  •  I padri che ho incontrato negli ultimi cinque anni

Un terapeuta familiare che come me lavora con pazienti adolescenti e giovani adulti, negli ultimi vent’anni ha incontrato soprattutto padri nati negli anni ’30 e ’40.

Si tratta di uomini affettivamente autarchici, perché non hanno mai sperimentato una relazione intima e personale con la loro madre, per i quali non è concepibile manifestare alcuna debolezza e chiedere aiuto. Quindi, sono stati abituati a contare esclusivamente sulle loro risorse, senza dipendere affettivamente da nessuno, o illusi di non dipendere affettivamente da nessuno, emotivamente autosufficienti, incapaci di esprimere i loro sentimenti, spesso preda della necessità narcisista di sentirsi “speciali” e quindi competitivi, ossessionati dal successo (oltre che più o meno apertamente maschilisti). Questi uomini nell’infanzia hanno frequentemente sofferto gravi traumi, trascuratezze, abbandoni, lunghe e precoci separazioni dai genitori. (E questo in una percentuale largamente superiore rispetto alle loro mogli. Si vedano a questo proposito i dati che abbiamo riportato in Selvini Palazzoli e al., 1998, p. 152).

Ho cercato di studiare un po’ più da vicino ed in modo sistematico l’identikit psicosociologico dei padri che ho incontrato negli ultimi anni. Ho preso in considerazione tutte le famiglie da me viste in consultazione familiare in équipe, ma nella posizione di terapeuta diretto, dal 1994 alla primavera 1999, cioè negli ultimi cinque anni. Ne è risultata una popolazione di 47 famiglie, in cui il paziente è un adolescente o un giovane adulto. Le età rappresentate dei pazienti vanno dai 14 ai 27 anni, con un’età media di 20 anni e mezzo.

Le diagnosi di questi ragazzi sono:

anoressia/bulimia 20

psicosi 14

devianza  4

disturbo grave della personalità 3

altro 5

29 pazienti sono femmine, 18 maschi.

Nel fare queste semplici rilevazioni, mi ha colpito il fatto che in nove di queste famiglie i genitori sono separati (3 si sono separati dopo la terapia), dato che segnala un cambiamento nella casistica del nostro Centro, dove tradizionalmente abbiamo visto pochissime famiglie con genitori separati (si veda il nostro libro appena citato p. 152).

Ho provato a valutare quanti di questi padri siano stati da noi considerati una risorsa importante per l’efficacia della terapia, ovvero su quanti abbiamo “investito” in termini di sedute centrate su di loro, prescrizioni, strategie terapeutiche e psicopedagogiche.

Ecco i dati:

 9 per lungo tempo

14 per una certa fase

17 mai

 7 non giudicabili

Di primo acchito mi ha colpito il contrasto tra quanto poco li abbiamo considerati una risorsa e quanto spesso li abbiamo invece considerati decisivi nel processo relazionale che porta alla sofferenza del figlio. Nelle devianze, per l’attivo ed aperto rifiuto che manifestano nei confronti del figlio (Cirillo, Selvini, Rangone, 1994) nell’anoressia per le loro carenze non riconosciute ed elaborate che vanno a sovraccaricare la madre paralizzandola nell’accudimento della prole (Selvini Palazzoli e al., 1998), nelle tossicodipendenze per la particolare “indifferenza” nei riguardi del ragazzo (Cirillo e al., 1994 e 1996), nelle psicosi per la distruttività/repulsione verso il figlio,  mascherata da intervento pedagogico e non testimoniata dalla madre (Selvini, 1993 e 1994).

Ho poi provato a considerare quanti di questi 47 padri avesse effettivamente fatto durante la terapia un cambiamento utile al superamento della sofferenza del figlio:

Ecco i dati:

 3 un cambiamento decisivo

12 un cambiamento significativo

24 un cambiamento minimo o nullo

 8 non giudicabile

Se posso considerarmi rappresentativo, allora questi dati confermerebbero l’impressione di una difficoltà dei terapeuti familiari a collaborare con i padri con soddisfazione reciproca.

Ho provato a classificare questi padri sulla base della loro identità socio-psicologica di ruolo, differenziandoli in tre categorie (categorie tutte diverse da quelle di personalità che vedremo più avanti):

a)      il padre autoritario/distante/tradizionale, che ho tratteggiato all’inizio dell’articolo

b)      il padre paritario, il nuovo padre che condivide la responsabilità genitoriale, si spartisce l’accudimento quotidiano, dentro un rapporto di coppia tendenzialmente simmetico/paritario con impostazione a doppia carriera

c)      il padre di transizione, collocato in modo intermedio rispetto alle due precedenti categorie. Un padre che condivide solo una parte minoritaria della responsabilità parentale, così come dell’accudimento quotidiano, ma che gioca con i suoi bambini e condivide con loro una parte significativa del suo spesso scarso tempo libero. L’ho chiamato nuovo padre “a scartamento ridotto”. Mariti solitamente poco paritari, impegnati in carriere molto più impegnative di quelle delle loro mogli

Ed ecco la quantificazione che ho prodotto:

28 padri tradizionali

 2 nuovi padri

17 nuovi padri a scartamento ridotto

Per rendere più completa la loro definizione di ruolo psico-sociale ho classificato anche le tipologie del rapporto di coppia:

13 a doppia carriera

16 a doppia carriera con forte dislivello a vantaggio dell’uomo

18 tradizionali

Ho avuto così la conferma numerica di quanto pochi siano i nuovi padri nelle famiglie in terapia con me e non molti sono anche i nuovi padri di transizione “a scartamento ridotto”.

 

  • Il gruppo di confronto  

Come confrontare i miei padri con i padri presenti in generale nella popolazione?

Dall’annuario ISTAT 1999 si può dedurre che su scala nazionale i nuovi padri dei bambini fino a 2 anni sono circa il 20% (dati su comportamenti paterni di accudimento quotidiano).

Per una valutazione più attendibile dei padri in terapia (Nord Italia, ceto medio-alto, figli di 20 anni) ho costruito una popolazione di confronto. Ciascun allievo di un gruppo di formazione della nostra scuola di psicoterapia doveva classificare, i usando criteri esposti precedentemente, i cinque padri, amici o parenti, che meglio conosceva nella generazione a grandi linee corrispondente a quella dei padri in terapia. Ne è risultata una popolazione di 59 padri così classificabili:

  9 padri tradizionali

19 nuovi padri

31 nuovi padri a scartamento ridotto

26 coppie a doppia carriera

24 coppie a doppia carriera con forte dislivello a vantaggio dell’uomo

 9 tradizionali

Il confronto appare significativo: nelle famiglie non in terapia i nuovi padri sono molti ed i padri tradizionali pochissimi. Ciò legittima l’ipotesi che il nuovo padre sia un fattore protettivo rispetto a rischi di psicopatologia dei figli, mentre, al contrario, l’essere una famiglia più arcaica rispetto alla media del territorio di appartenenza potrebbe essere un fattore di rischio.

E’ interessante sia il riferimento ISTAT che quello da noi costruito, infatti la percentuale di nuovi padri non è così distante (ISTAT 20%, nostra popolazione di confronto 32%) l’essere padri di bambini piccoli, e quindi in una generazione più giovane dovrebbe incrementare il numero dei nuovi padri, così come i fattori geografici e culturali che caratterizzano la nostra popolazione. Di qui la relativa vicinanza dei dati, che molto contrasta con quel 4% tra i padri in terapia.

 

  • I padri separati

Questa tematica del rapporto modernità/patologia nelle famiglie in terapia viene sottolineata da una ulteriore analisi sui 47 padri in terapia. Infatti, come dicevo più sopra, nove di loro sono separati dalla moglie al momento della consultazione con noi: tre hanno abbandonato pressoché totalmente il figlio, tre sono stati presenti nella sua vita, ma con un rapporto molto formale e distante, ma ben tre presentano parecchie delle caratteristiche dei nuovi padri ( 2 nuovi padri, 1 “a scartamento ridotto”). Padri che sono stati, per così dire, “affidatari” dei figli, sia prima che dopo la separazione.

Possiamo ipotizzare che per i padri autarchici tradizionali proprio l’assenza di un rapporto diretto con i figli sia stato un freno rispetto a possibili spinte alla separazione coniugale, per un vissuto, più o meno conscio, che separarsi avrebbe voluto dire la perdita di ogni significativo rapporto con i propri figli.

Questi dati paiono così complessificare il quadro, perché mentre il nuovo padre è in generale una risorsa utile per la terapia, sembra anche tendere maggiormente alla separazione, evento che notoriamente rappresenta in senso statistico un fattore di rischio per i figli.

 

  • Padri autarchici sacrificali

A questo punto è forse utile tentare una ulteriore e più specifica classificazione del tipo di personalità dei nostri 47 padri.

25 di loro esemplificano il soggetto che nel nostro ultimo libro (Selvini Palazzoli e al., 1998) abbiamo caratterizzato come “narcisista sacrificale”, vale a dire un tipo di padre che si avvicina al modello arcaico patriarcale, tradizionale ed autoritario di cui parlavo all’inizio di questo articolo. Uomini patriarcali nelle loro radici ottocentesche, ma già nati nella cultura industriale del ‘900, ancora figli insomma dei nostri bisnonni contadini, o comunque legati alla cultura della terra. Sacrificali in quanto l’etica del lavoro, del dovere in funzione della famiglia, è molto forte, e lascia poco spazio a gratificazioni più individuali.

Per questi uomini abbiamo parlato di narcisismo per il fatto di essere affettivamente autarchici, incapaci di avere fiducia nell’altro e quindi orientati all’autosufficienza del credere solo in se stessi, orientati inconsapevolmente allo sfruttamento affettivo dell’altro, dei “duri” che non possono mai chiedere aiuto, non devono manifestare i loro sentimenti, devono nascondere ogni segnale interpretabile come fragilità e debolezza, abituati a fare e non a parlare.

In realtà sono dei carenziati, hanno vissuto la miseria, il collegio, l’emigrazione, la guerra, in un contesto psicologico dove sono stati precocemente adultizzati e responsabilizzati. Carenziati che si illudono di essere superuomini, mentre emotivamente dipendono enormemente dalle loro mogli, con le quali finiscono per mettere in atto uno “scambio ingiusto”, in quanto chiedono più di quello che sono in grado di dare. Non hanno avuto un rapporto di dialogo, solidarietà ed intimità con le loro madri (tantomeno, ovviamente, con i loro padri) e questo li differenzia in maniera molto netta dalle loro sorelle (op. cit., p. 157-158).

 

  • Una digressione terminologica

Abbiamo parlato di narcisismo per le caratteristiche descritte in questi padri, soprattutto per l’esistenza di un nucleo di identità fondato sul vissuto di essere speciali, un nucleo che per essere alimentato implica la necessità relazionale di essere sostenuto e rafforzato dal contesto (mogli e figli in primis). Tuttavia il termine narcisismo ha prestato il fianco a numerosi equivoci.

Ad esempio la definizione di narcisismo in quanto disturbo di personalità, che possiamo leggere nel DSM IV, presenta delle affinità con la nostra descrizione, ma anche una tale accentuazione dei tratti di grandiosità, richiesta di essere ammirati, sfruttamento degli altri, mancanza di empatia, da finire per allontanarsi di molto dalla nostra popolazione di uomini. Ed un discorso analogo potrebbe essere fatto per altri testi di riferimento, come ad esempio Gabbard (1994). Per evitare confusioni, crediamo che sarebbe stato meglio da parte nostra parlare di autarchia affettiva, nel senso relazionale di sfiducia di base nell’altro (e non quindi rispetto al classico continuum introversione-estroversione, che è solo descrittivo di un comportamento interattivo verso l’ambiente).

Il narcisismo viene così collocato come un sottotipo interno ad una grande polarità autarchica, sottotipo che si affianca a quelli, ancora più autarchici, quali gli schizoidi, paranoidi e schizotipici e a quelli forse  meno autarchici quali l’antisociale e l’ossessivo-compulsivo.

Sul versante opposto a quello autarchico, quello della più o meno ansiosa fiducia nell’altro, troviamo la polarità delle dipendenze, con i suoi vari sottotipi istrionici, evitanti, borderline e dipendenti propriamente detti.

Considerando i miei 47 padri in termini di versante di personalità in senso lato, senza ancora scendere in una descrizione più specifica e dettagliata, li trovo tutti sul versante autarchico, il che mi fa pensare che esista una modellizzazione culturale molto potente. Infatti anche i miei due nuovi padri sono certo dei nuovi mariti nel senso delle coppie a doppia carriera e della condivisione delle responsabilità genitoriale, ma restano fondamentalmente autarchici nell’incapacità di una vera intimità e reciprocità affettiva.

 

  • Gli autarchici edonisti

Come abbiamo appena visto tra i miei 47 padri ne ho classificati 25 come tradizionali e sacrificali.

Altri 10 di loro appaiono invece fortemente influenzati da una cultura ancora autarchica, ma storicamente più moderna: l’edonismo e l’individualismo duro affermatisi a partire dagli anni ’60, in parallelo con il già citato movimento anti-autoritario (Lasch, 1979). Questi 10 uomini si differenziano dagli altri 25 soprattutto per il venir meno in loro del senso dell’unità della famiglia, di un sentimento forte di appartenenza, e quindi del dovere di sacrificarsi per la famiglia.

Per questi uomini si può parlare di una tendenza all’individualismo duro. Può rimanere, ma non sempre, la forte dimensione competitiva nel lavoro, ma ci sono tante varianti (hippy, artista, movimentista politico, ecc.) si accentua la tendenza a ricercare successi e conferme sessuali, si accentua in definitiva la ricerca di gratificazioni più immediate, per l’influenza dei nuovi valori della cultura dell’immagine o dell’ “apparire”, lasciando da parte o minimizzando le responsabilità collegate all’appartenenza ad una relazione filiale, coniugale o di paternità. L’appartenenza è vissuta come un’indebita restrizione della libertà. Per fare solo un esempio, ma molto significativo, basti pensare all’impressionante dato che ci viene dalla ricerca italiana sugli effetti della separazione: entro cinque anni dalla separazione il 50% dei padri non affidatari perde ogni contatto stabile con i figli.

12 dei nostri 47 padri si collocano in modo intermedio tra queste due categorie, abbinando aspetti sacrificali ed aspetti edonistici.

Quanto ai 2 classificati come nuovi padri, certo si avvicinano molto di più al tipo edonista dell’individualismo duro, ad esempio hanno cercato conferma alla loro identità maschile in relazioni extraconiugali (arrivando infine a separarsi dalla moglie).

 

  • Gli autarchici nevrotici

Un terzo tipo d’uomo sul versante autarchico non l’abbiamo incontrato tra questi 47, mentre è largamente rappresentato tra gli psicoterapeuti, familiari e non. Si tratta del tipo che Alice Miller, parlando del “dramma del bambino dotato” definisce narcisista nevrotico (Miller, 1981).

Per le ragioni appena dette, potremmo ribattezzarlo “autarchico nevrotico”, anche se la Miller ha ragione nel cogliere come questo tipo di persone abbiano bisogno di sentirsi speciali  (e sono quindi narcisiste) nella capacità di capire ed aiutare gli altri.. Si tratta infatti di chi tende a trovare gratificazione in un ruolo anche empatico di sostegno ed aiuto agli altri. Ma a senso unico, senza la capacità di chiedere veramente aiuto all’altro nei momenti difficili, cioè senza la capacità di una vera reciprocità nella relazione intima (una sorta di sindrome dell’ “io ti salverò”). In questo senso voglio citare la significativa esperienza raccontatami da Manuel Gener, un collega di Barcellona: l’aver costituito un gruppo tutto maschile di autocoscienza basato sull’acquisizione delle capacità di parlare con altri uomini non solo di donne, calcio e motori, quanto delle proprie difficoltà, dubbi, sentimenti, fragilità, nello sforzo di fare di questa esperienza qualcosa di assolutamente paritario tra i partecipanti, senza che nessuno di ponesse come leader e terapeuta per gli altri. Un tipo di lavoro di rielaborazione dell’identità di uomo che ricorda il movimento americano guidato dal poeta Robert Bly (1990 e 1996) e ripreso in Italia da Claudio Risé (1993).

Autarchico nevrotico è quindi chi è inchiodato nel ruolo di salvatore ed incapace di una vera e cooperativa reciprocità affettiva.

Il contesto di apprendimento dell’autarchia nevrotica è quello della relazione intima, personale, confidenziale con madri sacrificali. Ma nella dimensione della non reciprocità, della valorizzazione del figlio come sostegno, dentro un vissuto di non poter pesare su di lei in quanto già sovraccarica di marito tradizionale, genitori anziani, figli problematici e così via. La novità della generazione nata negli anni ‘50-’60 è che una tale relazione intima valorizzante ed “eccitante” con la madre si allarga e si rafforza per le figlie femmine ed esordisce per la prima volta nella storia (in dimensioni sociologicamente significative) anche per i maschi. E’ la nascita di quello che Bly (1990) ha chiamato il “soft male”, quel nuovo tipo di maschio e di padre così largamente rappresentato tra i terapeuti contemporanei e di cui io, ad esempio, mi considero un prototipo sociologicamente rappresentativo.

Un maschio che ha avuto uno stretto contatto personale ed intimo con la madre, almeno nella fase post-adolescenziale della vita, formatosi in pieno boom femminista e diventato molto più femminista della sua stessa madre, un maschio teoricamente femminista come sua moglie. Un maschio che cerca di praticare il massimo della intercambiabilità di ruoli con lei, a partire dai lavori di casa per arrivare alla relazione affettiva con i figli. Un maschio che ha tuttavia i suoi problemi, che è stato ancora figlio di un padre emotivamente piuttosto distante, che è sicuro di voler essere diverso da suo padre, ma che non sa bene come fare, anche per la contradditoria influenza della cultura individualista edonista. Risulterà allora evidente che il padre autarchico nevrotico sarà certamente un nuovo padre.

 

  • Il mammismo dei maschi italiani

Riassumendo, per autarchia intendiamo allora l’illusione dell’autosufficienza affettiva, il sentimento di non dipendere da nessuno, che può anche sfociare nella strumentalità della relazione con l’altro, nel bisogno che l’altro ci faccia sentire in qualche modo speciali (la variante autarchico-narcisista).

Come abbiamo visto ci sono almeno tre tipi di autarchia:

  1. quella maschilista e sacrificale, tipica dei padri dei nostri pazienti, padri nati negli anni ‘20-’40
  2. quella edonistica, tipica dei padri nati negli anni ‘40-’50
  3. quella nevrotica, certamente assai rara tra i padri, in quanto fenomeno più tipicamente femminile

Tuttavia autarchia edonistica e nevrotica appaiono entrambe collegate al fenomeno ben noto del cosiddetto “mammismo” dei maschi italiani nati nel dopo guerra. Infatti nella transizione tra il tramonto del padre patriarcale tradizionale e l’affacciarsi del nuovo padre si è prodotto un lungo storico vuoto di paternità in cui la madre ha finito per essere molto spesso un genitore unico. E qui certo la latitanza di molti padri ha colluso con la possessività ed il protagonismo di molte madri.

Tutto ciò ha prodotto una generazione di figli maschi di madri ancora casalinghe e quindi ormai svalorizzate dalla mancanza di una loro realizzazione professionale. Madri che hanno finito per essere spesso troppo centrate sui loro figli. Ma tutto questo ormai appartiene al passato, alla generazione dei nati negli anni ’40 e ’50. Infatti a partire dagli anni ‘60-’70, la professionalizzazione delle madri cresce continuamente, cancellando, come ovvio, almeno la base strutturale del “mammismo”. Nel mio caso, avendo avuto in anticipo sui tempi una madre valorizzata e coinvolta nella professione, credo di aver già vissuto l’esperienza ormai comune nelle generazioni nate negli anni ‘80-’90. Si tratta di un vissuto di figlio che va più verso la solitudine, verso il sentirsi non poi così importante per i propri genitori, dato che mamma e papà hanno così tante altre cose più rilevanti di noi cui devono dedicare tutta la loro attenzione.

E questo sembra di nuovo un contesto di apprendimento di tipo autarchico simile a quello in cui sono cresciuti i padri tradizionali. In realtà non è così, perché i genitori di un tempo, cioè i nostri bisnonni, producevano un’autarchia vera, scontata, priva di ogni traccia di senso di colpa. Oggi invece, quando le cose non vanno bene, genitori ancora sovraccarichi, ma in modo totalmente diverso dal passato, producono, come vedremo, un’autarchia molto meno lineare, più oscillante e contradditoria.

 

  • Nuovi padri: la questione del sovraccarico

Molti giovani uomini d’oggi possono aver sperimentato forme di rapporto personale e ravvicinato con le loro madri, sia pure spesso con modalità troppo paritarie o addirittura di inversione dei ruoli. Questo certo li predispone ad essere diversi dai loro padri che ben difficilmente hanno avuto questo tipo di esperienza. Tuttavia, ancora più che dalla loro esperienza di figli sono certo oggi influenzati dal fatto di essere assai spesso dei nuovi mariti ovvero uomini sposati con una donna “femminista” che gestiscono una vita familiare “a doppia carriera”.

Un potenziale nuovo padre, tuttavia, non è stato influenzato solo dalla relazione intima con la madre (potenziale contesto di apprendimento dell’autarchia nevrotica), e dal boom femminista, ma anche dal trionfo dell’individualismo duro degli anni ‘70-’80 (autarchia edonistica). Di qui l’apparire e l’aggravarsi di un potenziale sovraccarico di ruoli del nuovo padre contemporaneo. Un padre deciso ad assistere al parto dei suoi figli, a cambiare i pannolini, a portare fuori i figli nel tempo libero, ad alzarsi di notte, a giocare con loro, a coinvolgerli nel suo tempo libero ed interessi, ma anche ben deciso a non scivolare nella sacrificalità pura, deciso a difendere i suoi spazi di gratificazione personale, nella carriera, nella vita sociale, nel tempo libero.

Come ovvio, non è un equilibrio facile, e penso proprio a me stesso, al mio passare le vacanze di Pasqua ’98 scrivendo il primo abbozzo di questo articolo, e contemporaneamente occupandomi dei miei figli, di mia moglie, di mia madre. E mi sento piuttosto un equilibrista, un funambolo, a caccia di ritagli di tempo per farci stare tutto, anche quello che voglio riservare solo a me!

Per restare sulla testimonianza personale, ho provato ad aprire la pagina settimanale della mia agenda, e a razionalizzare il costante vissuto di incertezza e dubbio rispetto all’utilizzazione del mio tempo.

Ho potuto definire ben 10 aree, almeno parzialmente disgiunte, tra le quali sono costretto a scegliere per dar vita ai miei obiettivi esistenziali e valori fondamentali.

  1. Il lavoro: quanto tempo lavorerò? In quali orari? Quanto cercherò di guadagnare? Quanti sabati posso investire?
  2. Mia moglie: Riuscirò a stare qualche tempo solo con lei? A difendere il principio che la baby sitter è la prima terapeuta della coppia?
  3. E con Emilio, 14 anni, il mio primo figlio, cosa farò? Quando lo aiuterò a studiare inglese? Quanto spesso riuscirò ad andare alle sue partite di pallavolo? O alle riunioni per la scuola e gli scout? E qui va tenuta presente l’enorme pressione che la società contemporanea mette sui genitori, la quantità incredibile di riunioni, accompagnamenti, iniziative che le agenzie scolastiche, sportive, educative gettano addosso a noi poveri genitori!
  4. E Maddalena, 13 anni, con cui chiacchierare è un vero piacere, quando la vedrò al di là di quando le preparo la colazione? Quando troverò il tempo di andare con lei a vedere un film del suo amato Brad Pitt?
  5. Pietro, 7 anni, quante mattine troverò il tempo di accompagnarlo a scuola? E la promessa di portarlo a Gardaland o a Eurodisney?
  6. Gli anziani della mia famiglia: devo trovare uno spazio anche per loro.
  7. Mio fratello e mia sorella, i miei cognati, mi dispiace di vederli piuttosto poco, in definitiva siamo in ottimi rapporti di amicizia.
  8. Gli amici: non voglio isolarmi molto, sono quasi dei fratelli e delle sorelle, e poi è con loro che si possono fare le cose tra le più “leggere” della vita.
  9. E per gli altri cosa faccio? Va bene che il privato è politico, tuttavia mi sento una schifezza se tradisco la mia storia e non faccio più nulla sul terreno sociale e politico.
  10. Ed infine vengo io stesso. Quando posso “godere”? Quando posso permettermi di “perdere” del tempo solo per me? Giocando a tennis? Leggendo Camilleri? Facendo zapping?

Alla fine di questa lista (dove ho incluso solo le persone importanti e non la banca, il dentista, il meccanico, la spesa ecc.!) mi sento spossato, ed anche un po’ grottesco! E francamente non credo che né mio padre né tantomeno mio nonno alla mia età abbiano vissuto simili incertezze. Ai loro tempi l’etica del lavoro dominava incontrastata e tranquillizzante, il tempo libero maschile aveva la sua sacralità istituzionalizzata (il “riposo del guerriero” non doveva essere disturbato da bambini e simili) la vita di coppia era spesso di dubbia consistenza, e gli anziani di solito morti venti o trent’anni prima!

Ecco che allora, forse, questo cronico dubbio sull’utilizzo del tempo è un’altra delle caratteristiche basilari del nuovo uomo.

  • Stanno arrivando i primi padri non autarchici?

Possiamo pensare che tutti i padri siano autarchici? E che i nuovi padri possano essere i primi padri della storia non autarchici o almeno un po’ meno autarchici?

A questa domanda risponderei fondamentalmente di sì, in quanto la cultura dell’identità maschile è fondamentalmente una cultura autarchica, seppur nelle tre varianti citate, e cioè la cultura dell’uomo che “non deve chiedere mai” perché è così duro, o così brillante, o così buono. Insomma un combattente, o una star o un prete. Forse però un nuovo padre può ridimensionare l’estremismo autarchico, perché la cultura dell’intimità, della parità e della solidarietà nelle nuove coppie può consentirgli di mostrare le sue debolezze alla moglie e chiederle aiuto. Potremmo allora ipotizzare che un matrimonio autenticamente paritario, basato su una nuova e reciproca espressività affettiva, possa “curare” l’autarchia del maschio contemporaneo, anche se non sono da trascurare le citate nuove forme di aggregazione maschile, vedi le esperienze terapeutiche proposte da Bly (raduni nei boschi per riscoprire il positivo dell’animo “selvaggio” maschile), il gruppo già citato di Manuel Gener o più semplicemente il tentativo di costruire rapporti tra maschi che escano dai soliti stereotipi: donne, motori e sport.

  • Quali i rischi dei figli dei nuovi padri?

Ma torniamo alla mia piccola ricerca, da cui, come abbiamo visto, emerge che di nuovi padri posso dire di averne incontrati solo due, tra le quarantasette famiglie citate.

La mia casistica sembra dimostrare che il nuovo padre e quello a scartamento ridotto sono nella terapia una risorsa positiva. Così infatti è stato nella grande maggioranza dei casi (per quanto sia poco significativa un’analisi fatta con numeri così bassi). E’ chiaro che questo tema richiederebbe un’estensione ed un approfondimento della ricerca. Ed infatti cominciano a comparire degli studi, condotti nel contesto dei centri per la salute mentale infantile, che sottolineano una stretta relazione tra la partecipazione attiva del padre nella consultazione e l’efficacia dell’intervento (Rodrigo Tortosa D, 1999; Gonzales Ibanez, I e Gratacos Alemany, M., 1999). Servirebbero delle ricerche sulle famiglie con bambini in difficoltà: i nuovi padri sono di più o di meno di quel 20% indicato dall’ISTAT?

La mia constatazione empirica che nelle terapie familiari sia i nuovi padri sia quelli “a scartamento ridotto” sono una risorsa positiva non risolve un difficile quesito di fondo: i padri più moderni sono proprio persone con più risorse empatiche e psicologiche per aiutare figli in difficoltà, o è la maggiore affinità culturale e generazionale con il loro terapeuta ad essere stato il fattore decisivo per il loro ingaggio? E’ ovvio che anche entrambe le cose possono esser vere: la nuova cultura pedagogica ha aiutato questi uomini ad essere più attenti in terapia verso i loro figli, ma anche la stessa vicinanza culturale generazionale del terapeuta lo ha aiutato ad essere più capace di mettersi “nei loro panni”.

  • Il rischio del corto circuito ansioso

Il corto circuito ansioso l’ho sperimentato personalmente, e visto accadere attorno a me, non è un fenomeno che ho osservato come terapeuta familiare.

Nella nuova famiglia puerocentrica l’arrivo del primo figlio è un evento sconvolgente, ben più del matrimonio o della convivenza, eventi che hanno ormai una minore valenza emotiva, data l’elevata libertà dei giovani adulti contemporanei.

Nelle nuove famiglie il padre è molto coinvolto nella gravidanza, nel parto, si sente molto responsabile per il figlio, mentre parallelamente diviene meno importante il ruolo di sostegno alla neo-mamma di una nonna materna, che con forti probabilità è ancora professionalmente impegnata, così come anche le eventuali sorelle della mamma. In generale la cultura psicologica rende certamente i neo genitori molto più attenti ma, per logica conseguenza, anche più ansiosi. E’ stata questa l’esperienza che ho fatto alla nascita del mio primogenito, quando, vittima del sacro fuoco del “fondamentalismo psicorelazionale”, sollecitai con forza mia suocera a togliersi dai piedi lasciandoci soli con il neonato. E fu così che le classiche coliche serali ed i contrattempi dell’allattamento poterono in breve ridurci in penose condizioni psichiche.

Credo si possa generalizzare l’osservazione che la nuclearizzazione della famiglia, l’allentarsi dei legami di clan con le donne più esperte, presenti dei rischi soprattutto per i primogeniti, che si trovano ad incontrare neogenitori “sotto choc”, che si spaventano a vicenda più che riuscire a sostenersi.

Uno choc non legato solamente all’inesperienza, ma anche al grande cambiamento esistenziale per l’arrivo di un formidabile vincolo che mette fine ai molti anni di grande libertà della vita dello studente e del giovane lavoratore, che esce tutte le sere e fa tutto quello che vuole del suo tempo libero. E’ l’inizio di quel processo di sovraccarico che poi, come abbiamo visto, andrà in crescendo negli anni successivi.

  • I rischi della permissività

Crollata la posizione autoritaria del padre si è fatta avanti una cultura dell’ascolto, del rispetto, della non violenza, della tutela dei minori, ed è questa forse la principale conquista di civiltà degli ultimi decenni. Ma anche questa posizione contiene inevitabilmente un rischio di segno opposto al precedente. Molti hanno sottolineato il rischio di padri troppo “amiconi” o troppo “mammi”, incapaci di dare regole, contenimento, valori. Il rapporto del Ministero degli Affari Sociali sullo stato dell’infanzia e dell’adolescenza parla di una “certa tendenza dei genitori di oggi a rinunciare a fare i genitori” (citato in L’Unità del 12 Febbraio 1998, p. 9), parla di genitori che non riescono a dire “no” anche perché temono di replicare l’educazione repressiva di cui si sono sentiti vittime. Il bambino onnipotente di oggi, che tiene la famiglia in scacco, sarà domani un adulto debole ed insicuro.

Charmet, autore di un libro intitolato proprio “Un nuovo padre”, così si è espresso in una recente intervista:

“Dal padre assente si è passati al padre debole. Più presente di un tempo sulla scena educativa, mantiene un profilo sfumato. La paternità rimane per lui un rompicapo. La sua massima aspirazione è avere l’applauso, l’ovazione dei figli. Seduttivo e fragile, da bravo narciso non riesce a rispecchiarsi nei bisogni della prole. E finisce per essere, a volte, un padre sprezzante. Se ha più fortuna e un pizzico di empatia, viene invece protetto e rassicurato dai figli. Sempre meglio della durezza inseguita dai padri di un tempo. Il bambino super-nuovo deve saper godere dei caratteri deboli del modello maschile”.

In questo discorso mi sono sentito decisamente coinvolto quella volta che mio figlio Emilio, che da sempre non è un modello di obbedienza, verso gli undici anni mi ha davvero sorpreso affermando con convinzione: “da grande sarò un padre molto più severo di te!”.

Sulla cosiddetta “permissività” occorre però fare chiarezza in quanto cambia totalmente di significato psicologico a seconda del contesto relazionale in cui si inserisce.

a)      Charmet fa proprio riferimento al padre che ho definito più sopra “autarchico edonista”. Un tipo di padre che è soprattutto interessato ad una superficiale ammirazione da parte dei figli, ma che in realtà è disimpegnato nella relazione con loro. Il permissivismo nasce qui da un desiderio di tener buona la prole per potersi fare tranquillamente i fatti propri. Il permissivismo s’inscrive qui nel registro affettivo di una sottile indifferenza

b)      Il permissivismo può invece nascere sul terreno di una difficoltà coniugale, da una ricerca di complicità/alleanza con uno o più figli contro una moglie vissuta negativamente (come prevaricante o anaffettiva o altre caratteristiche negative). E’ questo un concetto storico della terapia familiare, che parte dal triangolo perverso di Haley (1970) e che ritroviamo anche nel concetto di istigazione (Selvini Palazzoli e al., 1988)

c)      Il permissivismo può invece generarsi sul terreno della debolezza del padre nel quadro di una sorta di inversione di ruoli dove è il figlio a fare da genitore all’adulto. Charmet, come abbiamo visto, accenna anche a questo tema: un fattore di rischio importante di cui mi occuperò più avanti, forse il più trattato nella narrativa recente che tratta del rapporto padre-figlio (Donner, 1994; Stark, 1995; Nata, 1999).

d)     Il permissivismo può infine essere il frutto degli eccessi di una cultura psicologica. Il padre può sentirsi troppo importante per tutto quello che accade nella vita del figlio, in quanto tutto viene attribuito all’influenza di qualche fattore familiare, e si rischia così di deresponsabilizzare gravemente il figlio, privandolo dell’essenziale vissuto di essere in definitiva : “il capitano della sua anima”.

A proposito del permissivismo va detto che in generale fa parte di una sana relazione padre-figlio la possibilità che il genitore si arrabbi con il figlio e, allo stesso modo, reciprocamente, è molto importante che il figlio sia capace di arrabbiarsi con il padre, di litigare, di tenergli testa.

Questo tipo di esperienza è essenziale per lo sviluppo del sentimento di autostima, di valore personale, di forza, nella formazione della personalità durante l’adolescenza.

  • Il rischio dell’eccesso di lealtà

La dinamica “edipica” dell’eccesso di passionalità paritaria tra un padre e una figlia (talvolta anche un figlio) è sempre esistita. Anche nell’attualità possiamo trovare infiniti esempi: basti pensare, ad esempio, al legame dell’ex presidente Scalfaro con la figlia. Possiamo però pensare che con i nuovi padri, il rischio che un figlio resti “sposato” con lui possa accentuarsi.

Questo rischio mi fa pensare alle anoressiche/bulimiche che abbiamo definito di tipo B (Selvini Palazzoli e el., 1998, p. 169-170) cioè orientate soprattutto al padre come figura di riferimento affettivo.

Il padre della B è generalmente un nuovo padre “a scartamento ridotto”. Il caso più emblematico che mi viene in mente è quello di quel padre che nell’imminenza del matrimonio con la sua storica fidanzata s’innamora di una collega. Con molta fatica, tenendo il suo amore segreto con tutti, accetterà di sposarsi ugualmente, forse per non ferire la fidanzata o forse per sudditanza nei confronti della sua famiglia di origine. Successivamente alle nozze, la giovane moglie non capisce più niente, ma è sconcertata dalla per lei inspiegabile metamorfosi del suo uomo: triste, immusonito, irascibile. Ma con la nascita della primogenita, una deliziosa bambina, ecco che il nostro uomo inizia a ritrovare il sorriso, sta tantissimo con lei, le dedica quasi tutto il suo poco tempo libero. Inconsapevolmente si alleva così una sorta di anti-moglie, una bambina precocemente adultizzata, fortemente sensibile ai desideri paterni, una sorta di “suocera” di sua madre, che nella tarda adolescenza scivolerà nell’anoressia bulimica.

Un “gioco relazionale” oggi tipicissimo, ma certo assai più improbabile in tempi di padri assenti, distanti, centrati solo sull’esterno.

  • Il rischio dell’inversione dei ruoli

Come già dicevo, un importante fattore di rischio potrebbe essere quello della fragilità psicologica del nuovo padre, che può creare le condizioni per una responsabilizzazione eccessiva del figlio nella protezione e difesa del padre e che contemporaneamente determina nel giovane seri problemi di identificazione.

Da questo punto di vista mi ha molto colpito un recente articolo di Cirillo e Sardella (1999) dove vengono descritti e commentati tre casi di bambini (maschi) encopretici. Infatti tutti e tre questi bambini sono figli di nuovi padri e tutti e tre questi padri presentano significative problematiche personali. Il primo soprattutto sul versante sessuale (ha subito degli abusi, ha dei problemi di identità sessuale), gli altri due soprattutto sul terreno del fallimento professionale. Un dato che mi ha colpito perché anche uno dei due nuovi padri che ho incontrato in terapia (nel campione dei 47 citati) aveva una significativa storia di fallimenti professionali ed era stato proprio usato come “mammo” da una moglie di successo.

L’articolo di Cirillo e Sardella pone anche l’interessante problema connesso alla presenza di madri con significativi problemi affettivi (abbandoni subiti, perdite) e quindi con serie difficoltà ad essere una base sicura per i loro figli. Il nuovo padre può essere così anche costretto da questa difficoltà della moglie a rafforzarsi in un ruolo di “mammo”. Può trattarsi di un positivo gioco di compensazione reciproca, ma certo si tratta di equilibri piuttosto difficili, e di una difficile diagnosi differenziale per il terapeuta della famiglia: il padre compensa veramente le carenze della moglie o sta distruggendo l’immagine di lei nel cuore dei figli?

In un caso di multipla e grave psicopatologia di una fratria numerosa, che trattammo al Centro anni fa, un padre coniugato con una mamma ricca, manager ed anaffettiva, divenne un “mammo” incestuoso con drammaticissime conseguenze.

Il problema dell’incesto è assai complesso. I padri incestuosi sono spesso descritti come dei “mammi” (Malacrea, M., Comunicazione personale, Barcellona, 1997) e si potrebbe quindi ipotizzare che la cultura contemporanea che ha intensificato i contatti ravvicinati tra padri e bambini abbia finito anche per facilitare la possibilità dell’incesto.

D’altra parte, Stefano Cirillo mi ha fatto notare quanto spesso il padre abusante ha conosciuto la vittima già grandicella perché lontano al momento della nascita, o perché è in realtà un patrigno che ha incontrato la mamma quando già la bambina era nata. In ogni caso resta evidente che l’incesto può determinarsi quando chi si trova ad esercitare un ruolo genitoriale è psicologicamente assai lontano dal poter sentirsi un adulto protettivo ed accudente. In questo senso è allora il contrario di un nuovo padre.

  • Padri (genitori) sovraccarichi e discontinui

Come accennato poco fa in senso autobiografico, già da più parti si è osservato come il sovraccarico di ruoli, non solo dei padri ma anche delle madri, sembri produrre nei ragazzi di oggi il sentimento sottile, ma profondamente pervasivo, di non essere veramente interessanti ed importanti per i loro genitori.

Un vissuto ben diverso da quello di molti pazienti degli anni ‘50-’60, laddove l’invadenza di madri casalinghe frustrate pareva essere un decisivo fattore di rischio. Oggi ben difficilmente il figlio è per il genitore l’unico veicolo della realizzazione personale.

Tuttavia, in senso sociologico, il crollo delle nascite, pare essere un fisiologico fattore di riequilibrazione rispetto al potenziale senso di “non importanza” dei nostri figli in relazione all’interesse per loro dei genitori. Ed anche la cultura contemporanea della centralità del bambino nella famiglia non è certo in crisi, anzi! Quindi sovraccarico di ruoli e cultura puerocentrica sembrano bilanciarsi reciprocamente, ma non si tratterà di un equilibrio pieno di vuoti e di oscillazioni?

Oggi la diagnosi più in aumento pare essere quella di disturbo borderline, nelle varie accentuazioni e combinazioni tra comportamenti autolesivi, bulimici, tossicodipendenti, devianti, aggressivi ecc.

Dal 1991 al 1996 i suicidi di ragazzi maschi dai 10 ai 17 anni sono passati da 11,6 a 23, 02 su un milione.

Nelle storie personali dei nostri pazienti border ci ha spesso colpito proprio l’estrema mutevolezza della relazione con i genitori, o con il genitore di riferimento: si attraversano fasi di assenza di tutela del figlio, poi di estrema vicinanza paritaria, poi di forte rabbia ed aggressività reciproca (Selvini, M., 1999).

Potrebbe forse essere allora un fattore di rischio importante quello della discontinuità, imprevedibilità, intermittenza della presenza empatica di questi genitori, questi funamboli sovraccarichi di ruoli e obiettivi che alla fine rischiano di rivelarsi inconciliabili.

Queste nuove famiglie, dove la cultura della nuova paternità si mescola con gli elementi dell’individualismo edonista e con le esigenze delle doppie carriere, rischiano di creare situazioni relazionali altelenanti e confuse, dove nel tempo elementi relazionali diversi si accavallano: dalla protettività alla seduttività, dall’espulsività ostile all’amicizia complice.

Ed è proprio questo il complicato retroterra relazionale che troviamo in molti dei ragazzi cosiddetti borderline.

 

Conclusioni

Il successo della terapia familiare nasce sul terreno di un importante vuoto storico: quello della società senza padri. Il ruolo paterno doveva essere rilanciato perché la donna era stata gravata di troppe responsabilità.

La terapia familiare si afferma in parallelo alla rivolta giovanile contro i vecchi padri autoritari/assenti.

Oggi questa rivolta è finita, ma un grosso problema resta aperto: ha ancora un senso distinguere tra materno e paterno? Madri dialoganti, padri silenziosi, ma che giocano con i loro figli, non saranno soltanto retaggi di un passato ormai destinato ad estinguersi? Non saremo anche qui di fronte ad un’unica “carriera” dove quello che conta è solo quell’amore “co-terapeutico” (Canevaro, 1999) nella coppia che consente un buon lavoro d’équipe?

Riassunto

La terapia familiare nasce con il passaggio dal padre autoritario al padre democratico nella affermazione del ruolo strategico del padre in polemica con l’impostazione tutta diadica madre-figlio che caratterizza la psicoanalisi. I padri che si incontrano nelle terapie familiari sembrano essere più arcaici della media, uomini affettivamente autarchici, classificabili in tre tipi: sacrificale, edonista e nevrotico.

Il nuovo padre che accudisce i figli e condivide la responsabilità genitoriale, che tipo di relazione, e con quali rischi, stabilisce e stabilirà con i suoi figli? Quelli del corto circuito ansioso, dei vari tipi di permissività, dell’eccesso di lealtà, dell’inversione di ruoli e di un sovraccarico che produce discontinuità ed imprevedibilità.

 

Summary

Family therapy starts with the transition from the authoritative father to the democratic one, in the affirmation of his strategic role and in open contrast with the dyadic mother-child model which is peculiar of psychoanalysis. The fathers we encounter in family therapy appear to be more of an archaic mode than the average: they are affectively autarchic and can be classified within three types: sacrificial, hedonist and neurotic.

The “new” father cares for the offspring and shares parental responsibility, what kind of a relationship (entailing the risks) does he set up and maintain with his children? Those involving a short circuit of anxiety, various forms of permissive behaviour, an excess of loyalty, a switching of roles and an overload that gives rise to discontinuity and unforeseeable behaviour.

Resumen

La terapia familiar nace con la transiciòn desde el padre autocratico al padre democratico, en la afirmaciòn del rol estrategico del padre que contradice la impostaciòn totalmente diadica madre-hijo que caracteriza el psicoanalisis. Los padres que vemos en el ambito de la terapia familiar parecen ser màs arcaicos que la media, son hombres afectivamente autarquicos y pueden ser clasificados en tres tipos: sacrificado, hedonista, y neurotico.

¿El “nuevo” padre, que cuida a los hijos y condivide la responsabilidad genitorial que tipo de relaciòn (y con quales riesgos) establece y establecera con sus hijos? Un cortocircuito ansioso, las distintas formas de permisividad, un exceso de lealtad, una inversiòn de papeles, una sobrecarga que da lugar a discontinuidad e imprevistos.

 

Nella stesura di questo articolo mi è stato prezioso l’aiuto di Stefano Cirillo, mentre per la parte di ricerca sui padri devo ringraziare Luisa Blasi, Stefania Capelli, Franca Corbia, Daniela Fabrizi, Elvira Fernandez, Andrea Gazziero, Filippo Giulioni, Fabio Malfitano, Claudio Pianca, Mila Riscassi.

 

BIBLIOGRAFIA

1) ARGENTIERI, S. (1999) Il padre materno da S. Giuseppe ai nuovi mammi, Meltemi, Roma.

2) BLY, R. (1990) Per diventare uomini, Mondadori, Milano 1992

3) BLY, R. (1996) La società degli eterni adolescenti, Red., Como, 2000.

4)      BOZZI, G., CRISTIANI, C. (1996) Cento padri a Milano. Una ricerca sull’interazione precoce padre-neonato in Cristiani, C. (1996) (a cura di) Percorsi di genere tra natura a cultura, Unicopli, Milano, p.197-223.

5)      CANEVARO, A. (1999) Nec sine te nec tecum vivere possum in Andolfi (1999) La crisi della coppia, Cortina, Milano.

6) CHARMET, G.  (1995) Un nuovo padre, Mondadori, Milano.

7) CIRILLO, S., RANGONE, G., SELVINI, M. (1994) La famiglia regolare dell’adolescente antisociale, Terapia Familiare, 44, pp. 37-47.

8) CIRILLO, S., BERRINI, R., CAMBIASO, G., MAZZA, R. (1996) La famiglia del tossicodipendente, Cortina, Milano.

9) CIRILLO, S., SARDELLA, N. (1999) Riflessioni sul trattamento di tre bambini encopretici, Terapia Familiare, 60, pp. 57-81.

10) COVINI, A., FIOCCHI, E., PASQUINO, R., SELVINI, M. (1985) Alla conquista del territorio, La Nuova Italia Scientifica, Roma.

11) DE BERNART, R. (1996) Una bibliografia ragionata su: il padre, Terapia Familiare, 51, p. 77-85.

12) DONER, C. (1994) Bel libro, papà, Einaudi Ragazzi, Trieste.

13) GABBARD, G. (1997) Psichiatria psicodinamica, Cortina, Milano, 1995.

14) GONZALES IBAÑEZ, I. e GRATALOS ALEMANY, M. (1998) La implicación del padre en la consulta y su relación con la eficacia del proceso terapeutico, Escola de Terapia Familiar Universitat Autonoma de Barcelona.

15) HALEY, J. (1970) Verso una teoria dei sistemi patologici, in Zuck, G., Boszormenyi-Nagy, J., La famiglia: patologia e terapia, Armando, Roma 1970.

16) KOHUT, H. (1971) Introspezione, empatia e semicerchio della salute mentale, in Le due analisi del signor Z, Astrolabio, Roma.

17) LASCH, C. (1979) La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1981.

18) MILLER, A. (1981) Il bambino inascoltato, Boringhieri, Torino 1989.

19) MITSCHERLICH, A. (1963) Verso una società senza padre, Feltrinelli, Milano 1970.

20) NATA, S. (1994) La resistenza del nuotatore, Feltrinelli, Milano.

21) PITTMAN, F. (1990) The masculine mystique, The Family Therapy Networker, May-June, p. 40-52.

22) RICCI, C. e SELVINI PALAZZOLI, M. (1984) Interactional complexity and communication, Family Process, 23, p. 169-176.

23) RISE’ C. (1993) Il maschio selvatico, Red, Como.

24) SELVINI, M. (1993) Psicosi e misconoscimento della realtà, Terapia Familiare, 41, p.45-56.

25) SELVINI, M. (1994) Segreti familiari. Quando il paziente non sa, Terapia Familiare, 45, p. 5-17.

26) SELVINI, M. (1999) Terapia familiare e disturbi della personalità: una nuova prospettiva di ricerca messa alla prova sul terreno dell’anoressia, Psicoterapia, 18, pp. 45-50.

27) SELVINI PALAZZOLI, M., CIRILLO, S., SELVINI, M., SORRENTINO, A.M. (1988) I giochi psicotici nella famiglia, Cortina, Milano.

28) SELVINI PALAZZOLI, M., CIRILLO, S., SELVINI, M., SORRENTINO, A.M. (1998) Ragazze anoressiche e bulimiche. La terapia familiare, Cortina, Milano.

29) STARK, V. (1995) Quando si ruppe la lavatrice, Piemme, Casale Monferrato.

30) RODRIGO TORTOSA, D. (1999) Una investigación sobre dinamica familiar en niños afectados por trastornos del desarrollo en la primera infancia, in corso di stampa, Redes, Barcelona.

31) UGAZIO, V. (1985) Modelli di infanzia e ruolo del padre nel processo di costruzione sociale del bambino, in AAVV L’immagine paterna nelle nuove dinamiche familiari, 4, Vita e Pensiero, Milano, p. 77-101.