Durante il periodo di isolamento siamo stati un po’ tutti vittime del desiderio di mangiare di più, complice il fattore tempo e la predisposizione culturale alla tavola, che distingue noi italiani. Cucinare è in qualche modo prendersi cura di sé e di chi abbiamo accanto; per questo non di rado molti si sono cimentati ai fornelli per la prima volta, spinti dal desiderio di supportare i propri familiari in questo modo. Il cibo ha quindi a che fare con la relazione ma ancora di più con le emozioni. Sentirsi sazi significa vivere un’emozione primitiva di completezza, promuove sentimenti (temporanei) di sicurezza, colma i vuoti affettivi che sentiamo. Chiusi in casa, immersi in una situazione di incertezza e paura diffusa, il cibo è stato un po’ per tutti un facile supporto contro le sgradevoli sensazioni che si potevano sentir emergere, un modo per reprimere l’angoscia e colmare il senso di incertezza per l’incolumità psicofisica propria e dei propri cari. In parte è stato anche giusto farlo, siamo programmati ad attivare forme auto-compensatorie e aver condiviso in rete vignette esilaranti sui chili accumulati restando sul divano, è stato di ulteriore supporto, perché rispecchiarsi nell’altro serve a ricercare quella forza per sopravvivere: mangiare così tanto non era la scelta migliore in assoluto e in fondo lo sapevamo. Ora possiamo tornare a muoverci un poco, lo sguardo può andare oltre alle mura domestiche e quel bisogno di cucinare e mangiare senza soluzione di continuità, dovrebbe riassorbirsi senza grandi colpi di scena.
Se invece in una persona fossero state già presenti delle problematiche relative al rapporto con il cibo, la situazione nel periodo di isolamento deve averla messa a dura prova, acuendo sensazioni di tormento interiore e scatenando emozioni contrastanti, probabilmente con ricadute spiacevoli nelle relazioni familiari. Vivere tutti insieme, sempre, in spazi magari non troppo ampi, ha sottoposto a stress tutti, generando situazioni di grande conflitto interiore, in chi non ha potuto trovare un’ancora di salvezza neppure nel cibo, che invece ha supportato molti di noi.
Se da questa pandemia possiamo veramente imparare qualcosa, ecco, forse potremmo iniziare da qui, dal piatto che abbiamo d’avanti e ricordarci come siamo stati in questi mesi. Facciamo memoria: delle volte in cui elaboravamo la lista della spesa in modo esasperato per non dimenticare nulla, (non saremmo comunque morti di fame dimenticando i particolari dadi vegetali biologici); l’affanno della ricerca del lievito perché fare il pane in casa ci faceva sentire capaci di provvedere a noi stessi nonostante tutto ( i panettieri non hanno mai chiuso); le numerose sperimentazioni di piatti esotici o elaboratissimi accuratamente ricercati in rete fra una call e l’altra (tanto non avremmo mai vinto un programma di cucina in tv). Se riuscissimo a scattare una sorta di foto mentale del rapporto che abbiamo avuto col cibo in questi mesi con lucidità e un pizzico di autoironia, troveremmo qualcosa di diverso dall’immagine del periodo precedente. Facciamoci su una risata liberatoria ma che ci serva ad alimentare la sensibilità nei confronti di chi con il cibo non vive normalmente un rapporto sereno. Prendiamo consapevolezza di come sia facile che la relazione con l’alimentazione si alteri, senza che si possa sfuggire al meccanismo, anzi, percependolo quasi come l’unico modo per sopravvivere ad una situazione dolorosa. Maturiamo la consapevolezza del cambiamento temporaneo che abbiamo vissuto nel nostro rapporto con il cibo e trasformiamola in sensibilità e attenzione verso il prossimo.