Siamo arrivati a fine giugno e l’appuntamento settimanale fisso con un pezzo sulla pandemia, per ora almeno si congeda, per lasciare un poco di spazio ad altro e ad altri, in vista della meritata pausa estiva. Ricordo che in questo ultimo mese ho scelto di riflettere su ciò che dal periodo del Covid potremmo aver imparato, al preciso scopo di avviare processi di apprendimento e di rielaborazione di esperienze faticose, dolorose e addirittura tragiche per qualcuno. Ho trattato del legame fra alimentazione ed emozioni, della consapevolezza verso il superfluo per gustarlo in modo nuovo, di ciò che la didattica a distanza ci lascia al di là della didattica stessa; oggi parliamo delle relazioni fra le persone.

Le relazioni si fondano sugli scambi e sulla comunicazione verbale e non verbale, fatta di parole quindi, ma anche di sguardi, contatti e distanze. Questa pandemia ci ha costretto a fare i conti con la gestione della distanza e il contatto fisico: concentriamoci su questo. Prima della pandemia difficilmente ci si fermava a pensare a quanta distanza c’è fra noi e il nostro prossimo, valutando in anticipo se sia meglio scendere dal marciapiede per evitare un incontro ravvicinato o osservando il viso di chi ci circonda alla ricerca dei suoi occhi per captarne lo stato d’animo oltre la mascherina. Come negli altri aspetti considerati dai precedenti articoli, anche qui è la possibilità di fermarsi a riflettere su ciò che diamo per scontato, fa la differenza nel processo di trasformazione dall’esperienza all’apprendimento.

Ognuno di noi vive la vicinanza e il contatto fisico con l’altro in modo personale e non tutti amano la prossimità. Ciò che ci accomuna è l’esperienza di essere stati obbligati all’attenzione verso i nostri comportamenti, costringendoci a riprendere le misure e quindi acquisire consapevolezza rispetto alle nostre modalità di relazione. Certamente le ansie e le paure del periodo hanno interferito con il nostro modo spontaneo di contattare l’altro, tuttavia non possiamo non aver notato dei cambiamenti in noi, proprio in virtù del fatto che, un simile stato d’allerta acuisce i sensi e offre alla memoria sponde sicure per fissare ricordi. Allora proviamo a tornare indietro un attimo a quelle settimane e appunto a ricordare alcuni incontri. Se ad esempio il fatto di essere costretti a non dare la mano, a non baciarsi o abbracciarsi, non sia stato vissuto come una grande mancanza, c’è da chiedersi fino a che punto in realtà in precedenza ci siamo costretti ad avvicinarci oltre la nostra natura, forzando qualcosa in noi per ragioni di convenzione sociale. Se di contro, non poter salutare con slanci d’affetto fisici, fatti anche solo di pacche sulle spalle o carezze sul capo, è stato uno sforzo a cui è seguita la sensazione che mancasse qualcosa nell’incontro, possiamo dire di rientrare nella schiera delle persone che amano e si nutrono della prossimità e del contatto. Non si tratta di stabilire una gerarchia fra i due modi di vivere la vicinanza con l’altro, ma solo di cogliere l’occasione della pandemia come possibilità di comprenderci meglio: maggiore consapevolezza abbiamo di noi stessi, migliori saranno le carte da giocarci nella relazione con gli altri, quando abbracciarci non sarà più rischioso.